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Un recente volume di storia ed ecclesiologia delle unioni

Un recente volume di storia ed ecclesiologia delle unioni

Di quell’evento resteranno solo le opere indimenticabili di Pisanello, Benozzo Gozzoli e Piero della Francesca? Parliamo del concilio di Ferrara-Firenze del 1438-1439, quando per l’unica volta nella storia parve possibile realizzare il sogno della ricomposizione della frattura fra cattolici e ortodossi.
A ricordare quell’accordo, che rimase ben presto lettera morta, è ora un volume di Vasile Alexandru Barbolovici, vicario generale per la pastorale dei romeni greco-cattolici del Nord Italia, intitolato appunto Il concilio di Ferrara-Firenze. Storia ed ecclesiologia delle unioni (Edizioni Dehoniane Bologna).
Come scrive Cesare Alzati nell’introduzione, il concilio fu quasi subito «incapsulato in uno stereotipo, quello del cedimento dei greci, pressati dall’incombente pericolo ottomano, di fronte ai latini, tanto potenti quanto cinici». Ma una seria analisi delle fonti storiche ci fornisce un quadro assai diverso, quello di un accordo che preservava l’integrità e l’autonomia della Chiesa greca e non prevedeva alcuna sopraffazione da parte di Roma. I punti essenziali dell’intesa erano infatti il mutuo riconoscimento tra le due Chiese, senza l’imposizione della tradizione latina; la dottrina del Filioque, poi, riconosciuta come corretta, era dichiarata corrispondente con quella greca in merito alla partecipazione del Logos; il pane azzimo era accettato allo stesso modo del pane lievitato; l’autorità del Papa veniva riconosciuta, ma si confermavano tutte le prerogative stabilite dai canoni per i Patriarchi ’Oriente; si evitò il termine “purgatorio” e non si disse nulla rispetto al “fuoco”, ratificando il giudizio individuale subito dopo la morte e l’apparizione di Dio «così com’è Lui», invocando poi la tradizione comune dell’intercessione per i defunti.
Si trattava dunque di un documento molto tollerante e ricco di sfumature. Cosa lo fece fallire? Un atteggiamento successivo da parte di molti cattolici che interpretavano l’unione come una reductio Graecorum, così come d’altra parte diversi esponenti della gerarchia ortodossa finirono per vederla come un’imposizione; il popolo stesso dei fedeli d’Oriente peraltro non pareva aver digerito il processo di unificazione. Giunse poi il crollo di Costantinopoli, nel 1453, e l’insuccesso di ogni tentativo intrapreso in Occidente per salvarla dalla conquista islamica. Il libro entra nei dettagli storici e teologici dell’intesa e del suo successivo smacco, ricostruendo poi anche gli accordi posteriori che furono varati nell’Europa dell’est, dovuti a motivazioni ora religiose ora politiche.
Come l’atto di unione di Brest del 1595, avvenuto nella cosiddetta Unione polacco-lituana, vale a dire in un paese che dopo gli iniziali successi della Riforma protestante vide una grande rinascita cattolica. Accadde così che il metropolita e i vescovi ruteni, cioè la gerarchia della comunità ortodossa che viveva in Polonia-Lituania, firmarono un documento d’unione con la Chiesa cattolica. L’accordo fu bocciato da Mosca ma anche Roma non vi diede peso più di tanto. Quell’atto, che si rifaceva esplicitamente al concilio di Ferrara-Firenze, sarebbe stato poi rivalutato in Romania, soprattutto nel periodo in cui la nazione fece parte dell’impero asburgico. Fra il 1698 e il 1700 in Transilvania si arrivò attraverso tre sinodi a dichiarare l’unione con Roma secondo il modello fiorentino: un’unione che non veniva intesa come separazione dalla comunione ortodossa ma che voleva ribadire l’unità nella diversità.
Conflitti teologici per secoli in componibili vengono così descritti nel volume, sino alla situazione attuale in cui in nome di un vero dialogo ecumenico la prospettiva dell’uniatismo è stata rigettata non solo dagli ortodossi ma anche dai cattolici.
Come ha detto Papa Francesco nel giugno scorso ricevendo una delegazione del patriarcato di Mosca, «la Chiesa cattolica mai permetterà che dai suoi nasca un atteggiamento di divisione... E quando qualche fedele cattolico, sia laico, sacerdote o vescovo, prende la bandiera dell’uniatismo, che non funziona più, che è finita, per me è anche un dolore. Si devono rispettare le Chiese che sono unite a Roma, ma l’uniatismo come cammino di unità oggi non va».
          
Fonte: L'Osservatore Romano, Città del Vaticano, giovedì 14 marzo 2019
anno LXXII, numero 11 (3.985)
Roberto Righetto

 

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